Doppio cieco nel riconoscimento all'americana
Wells (1993) ha documentato come colui che sottopone il testimone al riconoscimento possa influenzare l’identificazione. Infatti, può inavvertitamente comunicare chi tra i membri del line-up sia il sospettato, sia attraverso indizi verbali che, soprattutto, non verbali. Questo è ben dimostrato da uno studio di Phillips et al. (1999), in cui gli autori hanno manipolato le conoscenze che chi conduceva il riconoscimento aveva riguardo sospettato, scoprendo che queste andavano ad influenzare la risposta del testimone. Quando un teste viene invitato, da una autorità, a fare un riconoscimento, è propenso a pensare che egli (l’autorità) abbia un sospettato in mente (o in custodia), e sente quindi la responsabilità di indicare qualcuno tra le persone che gli vengono mostrate, anche se chi conduce il riconoscimento è attento a non forzare una risposta (Buckhout, 1974). Wells & Olson (2003) hanno anche sottolineato che spesso chi conduce il riconoscimento manda dei feedback positivi che confermano l’identificazione del testimone, e questo sembra influire sul ricordo del testimone, confondendo ancora di più il limite tra fiducia e buona riuscita di questo metodo.
Quello che possiamo verificare sono solo le condizioni al contorno: a) le possibilità oggettive di vedere una persona; b) le capacità visive e mnemoniche del teste.
Nonostante tutti i limiti messi in evidenza dalle ricerche scientifiche, nella giurisprudenza Italiana tutto è rimesso nelle mani del teste.
Se lui dice sì, è sì. Se lui dice “non ne sono completamente sicuro”, allora il riconoscimento non è sicuro. Non siamo in grado di dirimere il dubbio, appunto perché la ricognizione non è una prova ma un giudizio e a noi mancano parametri di controllabilità.
Non decide il giudice, decide il teste: il giudice prende atto di ciò che ha deciso il teste. Paradossalmente è il teste oculare che stabilisce l’attendibilità della propria testimonianza. Dunque il teste è giudice della propria testimonianza!
La giurisprudenza deve elaborare un protocollo logico (cioè un percorso logico fondato su una serie di test successivi) per valutare l’attendibilità della ricognizione del teste oculare.
Per esempio la giurisprudenza americana ha fissato un protocollo logico a due steps: a) prima accertare se c’è stata suggestione del testimone oculare; b) poi accertare se -nonostante tale suggestione- la ricognizione presenti caratteristiche tali da renderla valutabile da parte della giuria .
Anche il nostro sistema prevede due passaggi: a) la validità della ricognizione; b) l’attendibilità della ricognizione.
Le modalità della ricognizione sono disciplinate minuziosamente (213 ss. ) e si prevedendo anche ipotesi di nullità. Se la ricognizione è dichiarata nulla, diventa inutilizzabile. Ma cosa avviene nel caso in cui la ricognizione è dichiarata valida nonostante sia stata assunta con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge?
E cosa avviene nel caso in cui la nullità sia stata sanata (trattandosi di nullità relative)? Stiamo attenti a non confondere la validità-sanatoria della ricognizione con la sua attendibilità.
Una ricognizione nulla ma sanata è utilizzabile. Ma le ragioni che hanno provocato la nullità non sono sanate, perché sono ragioni logiche .
Nei paesi anglosassoni c’è la giuria che mette a posto le cose. Ma da noi non c’è la giuria ma la motivazione della sentenza. Noi abbiamo regole di nullità a scarsa incisività e non abbiamo regole logiche di valutazione.
Anche il potere taumaturgico della cross examination va ridimensionato: essa funziona bene quando si tratta di snidare il dolo del teste, ma qui il teste è di solito in perfetta buona fede. Quindi occorre modulare la cross examination sull’errore e non sul dolo. E’ difficile smontare un teste convinto di aver visto bene.
Tutto sommato, è una fortuna per il processo penale che il testimone oculare- prova principe nella storia del processo penale- venga oggigiorno sempre più sostituito da telecamere poste ad ogni angolo di strada.